in
Trentino
A settantant'anni
dalla sua scomparsa, il ritratto di un alpinista dalla personalità
poliedrica e affascinante
Lo scalatore un
giorno scrisse: «Niente
fremiti di gioia. Niente ebbrezza della vittoria. La meta raggiunta
è già superata. Direi quasi un senso d’amarezza per il sogno
diventato realtà. Credo che sarebbe molto più bello poter desiderare
per tutta la vita qualcosa, lottare continuamente per raggiungerla e
non ottenerla mai. Ma anche questo non è che un altro episodio.
Sceso a valle cercherò subito un'altra meta. Se non esisterà la
creerò».
Un uomo
giunge in vetta alle Grandes Jorasses, nel massiccio del Monte
Bianco: è reduce da lunghe ore di lotta in parete, ha tracciato la
via che, a giudizio dei più, costituisce il capolavoro della sua
vita, alpinistica e non solo, ma l'umore che lo pervade non è la
soddisfazione per la vittoria, non è la stanchezza per la lunga
battaglia, non è l'ebbrezza dell'autocompiacimento. Un velo di
malinconia fa capolino in lui, quel velo diventa un'onda
irrefrenabile e il suo sguardo corre lungo il profilo delle montagne
a cercare, un pò affannosamente, nuovi progetti, nuove sfide, nuove
pareti da vincere. Quell'uomo è Giusto Gervasutti, detto "il
Fortissimo". L'anno è il 1942, metà agosto. La parete appena domata
è la Est delle Grandes Jorasses, nel vallone del Freboudze,
tributario della Val Ferret. L'importanza
storica di Gervasutti colpisce anche chi di alpinismo non è un
intenditore. È già stato precisato che non era l'unico sestogradista
in circolazione e, anzi, in specifici risvolti probabilmente Giusto,
cede terreno nel confronto con altri personaggi: rispetto a un Cassin,
forse non era così "macchina da guerra in salita", anche se nella
determinazione in parete non scherzava affatto. Ecco perché a
settant'anni dalla sua scomparsa, Torino ricorda con particolare
affetto, e con un velo di nostalgia, il "suo" Gervasutti. Il legame
di Gervasutti con Torino, e viceversa, raggiunge l'apice
nell'eredità didattica che Giusto lasciò al mondo torinese, un
argomento così importante tant'è che merita un'analisi a parte. È già
sufficientemente impegnativo, qui, analizzare l'uomo Gervasutti,
con le sue contraddizioni esistenziali, la sua spinta innovativa e
le sue vulcaniche caratteristiche che indussero Motti a definirlo
«il Michelangelo dell'alpinismo». Giusto Gervasutti, di sangue friulano poiché nato a Cervignano del Friuli
nel 1909, giunse a Torino nel 1931. Aveva già alle spalle esperienze
alpinistiche nelle Alpi Carniche e Giulie e nelle Dolomiti. Della
scuola cosiddetta orientale.
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Gervasutti recepì le
novità tecniche, l'arte dell'arrampicata e, soprattutto, la
mentalità tipicamente da sestogradista. Giusto innestò
questo bagaglio nel mondo alpinistico subalpino, che, seppur
ricco di una blasonata tradizione risultava sempre un po'
ingessato nel tipico manierismo sabaudo. Il cammino evolutivo
dell'alpinismo torinese era solo abbozzato e richiedeva una
novità dirompente: questa novità fu l'arrivo di Gervasutti e
così scattò il vero cambiamento. Il connubio risultò
addirittura esplosivo e Gervasutti, grande dolomitista, scrisse invece i suoi
più grandi capitoli nelle Alpi Occidentali. E, soprattutto,
si rivelò un vero caposcuola. Troppo lungo, rispetto agli
obiettivi di questa analisi, sarebbe l'elenco delle sue
salite, perché ciò che qui
interessa è la poliedrica personalità di Gervasutti. Un'apparente
contraddizione di controspinte esistenziali, un insoluto mistero, un
ceppo di radici aggrovigliate che, da un lato, hanno condotto alcuni
osservatori a definirlo un «inguaribile misogino», se non
addirittura un «disadattato sociale», ma, dall'altro, hanno
infiammato Motti, fino a ispirargli il celebre ritratto
michelangiolesco. Per la cronaca la fama di misogino piombò sulle
spalle di Giusto al seguito di un episodio, datato 1934, raccontato
dal compagno di cordata Renato Chabod:
i due stazionavano al rifugio Torino, in attesa di sferrare
l'attacco decisivo al canalone Nord Est del Tacul, e furono raggiunti da una giovane e graziosissima
straniera, «innamorata pazza» di Giusto, che però, era
esclusivamente concentrato sulla salita e non voleva distrazioni,
tanto che allontanò la donna,
definitivamente da Courmayeur, che se ne tornò a valle «disperata e offesa». Conclude Chabod: «Più tardi Giusto mi confessò di essersi pentito; ma in quel
momento egli non avrebbe potuto comportarsi altrimenti,
perché la sua volontà era concentrata e tesa sulla grande
salita in programma». In realtà sappiamo da numerose fonti che, in contesti
cittadini, Gervasutti amava le belle donne, ma
anche questa
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contraddizione, insieme alle sue mille altre, contribuisce
al mito del "personaggio", che risulta
sostanzialmente un Giano bifronte, anzi un Giano multifronte.
Affabile conversatore nei salotti
torinesi, dove pare che
intrattenesse i commensali con annotazioni argute ma pacate, tenendo
in mano la sua pipa e indossando perfetti panni da gentleman britannico.
Imprenditore sempre concentrato sulla gestione dei suoi affari,
condotti però con signorile distacco e non per avidità di denaro
(che gli serviva principalmente per finanziare l'attività
alpinistica). Ideologicamente libero, quasi anarchico, non
giungerà mai a sposare completamente il regime fascista, ma neppure a
sfidarlo apertamente, anche se si narra che, durante l'occupazione
tedesca, nei suoi uffici ospitasse una cellula
rivoluzionaria. Mai coinvolto in polemiche, né
interne né esterne al mondo
alpinistico, la sua eleganza di modi a prima vista non potrebbe
convivere con il suo ben noto disprezzo verso la miseria delle cose
umane. Eppure questo disprezzo ogni tanto emergeva e anche
prepotentemente. Un episodio emblematico a tal fine è il racconto
che Gervasutti stesso riporta con riferimento alla vigilia del
Natale 1936. Ha da poco terminato di preparare lo zaino per
l'invernale solitaria al Cervino, che appunto lo vedrà impegnato nei
giorni seguenti, e sale al Monte dei Cappuccini. Dalla terrazza
osserva la città ai suoi piedi, brulicante di formiche umane,
impegnate nella spasmodica ricerca degli ultimi regali. Si discosta
aspramente da queste bassezze, non riesce a riconoscersi
nell'umanità, ma si consola per l'imminente impresa sulle vette.
«Provo una
grande commiserazione per i piccoli uomini che penano rinchiusi nel
recinto sociale, che sono riusciti a costruirsi contro il libero
cielo e che non sanno e non sentono ciò che io sono e che sento in
questo momento. Ieri ero come loro, tra qualche giorno ritornerò
come loro. Ma oggi, oggi sono un prigioniero che ha ritrovato la sua
libertà. Domani sarò un gran signore che comanderà alla vita e alla
morte, alle stelle e agli elementi». Le contraddizioni di Giusto
sottolineano le violente alternanze emotive, di cui un risvolto lo
coglierà, per esempio, appena uscito dalla Est delle Grandes
Jorasses. Infatti l'esistenza di Giusto è un continuo ping-pong fra
le frustrazioni della pianura e l'ebbrezza delle vette, ebbrezza
presto annebbiata dal prossimo ritorno al piano:
in questo esasperato
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pingpong affonda quella
natura michelangiolesca così ben intuita da Motti. In un saggio del
1994, scritto da Enrico Camanni, Daniele Ribola, Pietro
Spirito e intitolato La Stagione degli Eroi, si legge ep.
130): «L'uomo veramente creativo e Gervasutti va annoverato
fra i creativi che ha sempre grosse gatte da pelare con la
figura materna. Senza entrare nel dettaglio, è proprio
quell'attrito, quella sofferenza che genera in certi
individui uno slancio, una carica, una motivazione a creare
qualcosa e a trascendere la propria condizione.
L'irraggiungibilità della figura amata la situa sempre
"oltre". Perciò Gervasutti, e molti come lui, è
eternamente insoddisfatto. La cima, la meta è sempre oltre». «Spesso
la caduta mortale arriva nel momento in cui l'alpinista
avrebbe l'urgenza psichica di "introiettare" la montagna, di
coglierne il significato interiore e simbolico». In parole
povere, emerge l'ipotesi che l'incidente di Gervasutti, possa esser stato la
conseguenza di un'inconscia propensione al suicidio.
Infatti, poche righe dopo, si legge ancora: «Gervasutti non
ha potuto, non ha forse avuto la fortuna o la determinazione
profonda a vivere che in generale consiglia a un individuo
di diminuire i rischi e di cambiare genere di eroismo...
Ma fa parte dell'eroe Gervasutti l'esser morto a 37 anni,
all'inizio dell'età di mezzo, quella in cui l'eroe deve fare
i conti con la discesa, con la diminuzione dei mezzi fisici
e delle motivazoni». Analisi che colpisce a fondo perhé ci appare quasi blasfema, ma che
probabilmente ha un suo fondamento. A tale conclusione
potrebbe addirittura condurre un'interpretazione, un po'
strumentalizzata, di alcune righe redatte dallo stesso
Gervasutti, righe dalle quali potrebbe
già emergere un funesto presagio: «Sembra impossibile, ma in
quasi tutte le salite dove ci sono corde doppie difficili, a
me succede che, almeno una volta, la corda resti bloccata in
alto... In buona parte c'entra anche la religiosità, ma ci
deve essere |
il mio solito amico "caso", che, al
momento opportuno, mi dà una pestatina ai piedi». In effetti proprio
nel recupero di una corda doppia incastrata si consumerà la tragedia
del Tacul. Però a me piace ricordare Gervasutti ancora ben saldo
sulla plancia di comando dell'esistenza e, in tal senso, riporto il
brillante ritratto che di Gervasutti ci ha lasciato Renato Chabod,
il valdostano a sua volta accademico e più volte compagno di cordata
di Giusto (specie nella celeberrima "corsa
alle
Jorasses" alla metà anni Trenta). Nel libro La Cima di Entrelor,
Chabod dedica un intero capitolo all'amico: non è cosa da poco,
perché Chabod era personalità decisamente
Il Couloir Gervasutti sulla parete est del Mont Blanc du Tacul,
salito per la prima volta da Gervasutti e Renato Chabod nell'agosto
1934
burbera
e maneggiava con perizia una penna
affilatissima, spesso intingendola in un mix di humor britannico e
di salace sarcasmo. Chabod così ritrae Giusto: «Alto sugli 1,80, aveva un fisico atletico, armonioso e
possente, non appesantito da eccessiva muscolatura, ma asciutto e
solido, rigorosamente proporzionato. Era alpinista, ma prima di
esserlo, e per esserlo in modo più completo, era ginnasta, schermitore, nuotatore, sciatore: praticava seriamente questa sua multiforme
attività sportiva e si preoccupava di esser sempre in perfetta forma. Come nel fisico, era fortissimo anche nel morale. Nella buona
e nella cattiva sorte, nella vita in rifugio o di città, egli era
sempre calmo, sereno, sicuro della sua forza e della sua
meravigliosa capacità. Fortissimo fisicamente e moralmente, lo
era anche quanto a quella virtù sovrana che potremmo chiamare
"volontà alpinistica". La montagna era lo scopo primo della sua
esistenza, la passione che dovrà avere un'importanza non lieve nella
sua vita». Per comprendere in una battuta il personaggio Gervasutti,
non c'è sintesi più azzeccata di quella coniata dallo stesso Chabod. «Incominciammo a chiamarlo Il Fortissimo, dopo
il Trofeo Mezzalama del 1933. Un giornale torinese, narrando le
vicende della squadra del CAI Torino, aveva appunto parlato, alla
sportiva, del "fortissimo Gervasutti": l'aggettivo ci piacque tanto,
ci parve tanto appropriato, che lo trasformammo, con diverso e più
pieno significato di quello originariamente attribuitogli dal
cronista sportivo, in un vero e proprio nome di battaglia, facendolo
precedere da quel "Il" che lo presentava come Il Fortissimo per
antonomasia, l'unico, il vero, il solo fortissimo».
@nonnoenio
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